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Il sogno di Antonio Megalizzi, una torcia nel buio

Qual è l’età del sogno? Sempre, risponderebbe qualcuno che ama farlo a occhi aperti. In giovinezza, direbbe qualcun altro. Antonio Megalizzi aveva 29 anni e una forza oscura gli ha tolto la vita. Ma non ha spento il sogno. Paolo Borrometi ha 36 anni, qualcuno ha pensato che fosse facile togliergli la vita. E anche per lui vale la stessa regola: non si può spegnerne il sogno.

Marietje Schaake, europarlamentare olandese di Alde, ha proposto al Parlamento una risoluzione relativa all’impatto delle tecnologie dell’UE sui diritti umani dei paesi terzi. Già in una conferenza relativa alla necessaria lotta politica per la libertà di Internet, datata un anno fa, la Schaake aveva puntato il dito contro gli Usa e i loro eccessivi standard di sorveglianza, lamentando il dovuto coinvolgimento dell’Europa nel sostegno ad un sistema che tuteli le libertà del cittadino.

Considerando il sempre più importante impatto dei sistemi tecnologici sulla nostra quotidianità, viene naturale credere che siano le tecnologie il non-luogo nel quale vengono più spesso violati i diritti umani, come nel caso della sorveglianza di massa, le intercettazioni, la localizzazione dei cittadini e la loro attività privata, che sia telefonica o in rete.

Il punto focale della relazione rimane lo stesso: può una democrazia autoproclamarsi forte quando la privacy viene meno e ai cittadini viene negata la libertà? Può il mito della sicurezza fare da eccezione all’America? Possiamo crederci tanto più liberi di paesi come Cina, Russia o Turchia, se poi siamo i primi a non rispettare i diritti fondamentali dell’uomo?

Un ulteriore problema deriva dalla presenza ingombrante delle multinazionali, che sfruttano delle leggi estremamente permissive per arrivare dove solo i governi possono arrivare: nelle abitudini, nella quotidianità, nel cuore e nella mente del popolo, al fine di studiarne i comportamenti per poterne ricavare maggior beneficio da un punto di vista commerciale.

Ma non solo: governi di tutto il mondo si servono di sistemi di sicurezza per monitorare l’attività comunicativa di Internet all’interno del loro confine. Secondo il rapporto dell’ong britannica Privacy International, la Colombia avrebbe acquistato un software italiano, prodotto dall’azienda milanese Hacking Team, in grado di intercettare il traffico sul web dell’intero paese.

La stessa società, secondo Human Rights Watch, avrebbe venduto all’Etiopia sistemi in grado di spiare giornalisti, blogger e attivisti poco graditi al governo, espulsi in seguito dal paese con la scusa delle leggi sull’antiterrorismo.

La situazione non sembra migliorare neppure all’interno dell’UE. Joseph Cannataci, presidente del Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu, ha definito il Regno Unito di oggi di gran lunga peggiore della dispotica Londra in cui veniva ambientato il romanzo «1984» di Orwell, asserendo che «se guardiamo solo alle Cctv [le televisioni a circuito chiuso], almeno per Winston [il protagonista nel romanzo di Orwell] era possibile andare fuori in campagna e passare sotto un albero, e aspettarsi che non ci fosse alcuno schermo, come questi venivano chiamati. Mentre oggi ci sono molte par- ti della campagna inglese in cui esistono molte più telecamere di quelle che Orwell avesse mai immaginato».

L’infinito tira e molla con aziende come Facebook o Google, poi, altro non fa che sottolineare quanto distante sia la politica europea in tema di privacy ri- spetto a quella dei paesi terzi, evidenziandone diverse falle nel sistema giuridico e, di fatto, trovando enormi difficoltà nel coordinamento tra i vari stati, specie per colpa dell’ubicazione dei provider, operanti a livello internazionale.

C’è ancora molto lavoro da fare per garantire la tutela della libertà del cittadino in rete, ma qualcosa, in Europa, comincia a muoversi.

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