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FEBBRE CASTELLO

“Febbre” romanzo di Jonathan Bazzi

Adolescenze inquiete e silenzi pericolosi tra le righe di “Febbre”, folgorante romanzo d’esordio di Jonathan Bazzi, protagonista venerdì 29 novembre alle 18 all’ARC in via Falzarego 35 a Cagliari.

Sguardi sulle periferie metropolitane tra adolescenze inquiete e segreti “indicibili” in “Febbre” di Jonathan Bazzi, protagonista domani (venerdì 29 novembre) alle 18 nella sede dell’ARC in via Falzarego 35 a Cagliari insieme al giornalista Michele Pipia, per l’ultimo incontro d’autore della rassegna dedicata alla cultura Queer nell’ambito di “Legger_ezza” – il progetto di “promozione della lettura” firmato CeDAC.

Storia di una’insolita e quasi paradossale “catarsi” attraverso la malattia nel romanzo d’esordio dello scrittore milanese, già collaboratore di Gay.it e Il Fatto.it, che punta i riflettori sulla dura realtà dei quartieri “difficili” e dei piccoli centri ai margini di una grande città, tra povertà e degrado.

Rozzano – o Rozzangeles – il Bronx del Sud (di Milano), terra di rapper, come Fedez e Mahmood, è il rione dei “tamarri” e dei delinquenti, dove i ragazzi crescono tra indifferenza e rabbia: un ambiente “fertile” per la criminalità e per le attività legate allo spaccio di droga, in cui si combatte ogni giorno per la sopravvivenza e il confine tra legalità e illegalità appare sempre più labile, in una condizione diffusa di miseria materiale e morale.

Febbre” è la storia di una “rinascita” al termine di un faticoso percorso di indagine per individuare le cause di un male misterioso: il protagonista scoprirà, quasi con sollievo, dopo estenuanti autodiagnosi e approfondite analisi mediche, di essere sieropositivo. La rivelazione di non essere in punto di morte darà il via a un percorso all’indietro nel tempo, dall’infanzia con l’abbandono da parte dei genitori, troppo giovani e immaturi per prendersi cura di qualcun altro, presto sostituiti nel loro ruolo dalle due coppie di nonni, alla consapevolezza della propria diversità rispetto all’ambiente – è un ragazzo colto, sensibile, omosessuale che ama l’ironia – e alla ricerca di una personale via di salvezza e di riscatto.

Folgorante esordio letterario per Jonathan Bazzi, che (si) racconta in un’opera cruda e spietata, avvincente e a tratti quasi poetica, restituendo un’immagine vivida delle periferie, troppo spesso dimenticate e abbandonate a se stesse, in un crocevia di genti e culture, dove si intrecciano storie e tradizioni. Un microcosmo animato in cui sboccia una gioventù spesso problematica, consapevole dei privilegi negati e della propria emarginazione, degli svantaggi rispetto ai coetanei abituati al benessere e al lusso e quasi destinati “per nascita” al successo: il fallimento della democrazia si legge nei destini apparentemente “segnati” dei ragazzi dei rioni “popolari” e dei paesini dell’hinterland a contatto con un’umanità più “autentica” ma anche con il disagio e la precarietà.

Febbre” è un romanzo coinvolgente, realistico e amaro ma anche lirico – dedicato “Ai bambini invisibili” – intessuto dei sogni e delle naturali aspirazioni di quei giovani più “sfortunati” in bilico tra indignazione e rassegnazione: la certezza di essere prossimo alla fine, poi smentita, restituisce al protagonista la lucidità per ripensare la propria esistenza, e la determinazione di riappropriarsi del proprio futuro. In epigrafe – le parole di Elsa Morante in “Menzogna e sortilegio”: «Ogni relazione affettuosa, anche la più temeraria, conosce dei colpi da cui deve guardarsi, voglio dire delle parole che vanno taciute, degli argomenti che non bisogna evocare» fanno da contrappunto ad un’affermazione icastica di Ingeborg Bachmann: «Con la mia mano bruciata scrivo della natura del fuoco».

Il diario della malattia – con quei sintomi fastidiosi e incomprensibili, la necessità di fermarsi, scoprire la verità – conduce immediatamente al cuore della questione: il potere disvelante della patologia risiede non solo e non tanto nelle sue implicazioni, quanto nell’imporre dei tempi e dei ritmi differenti, un’attenzione e un ascolto del corpo, nel ricordare la fragilità restituisce una nuova centralità al mistero della vita. In “Febbre” il protagonista si esprime nel linguaggio semplice e diretto, coi toni aggressivi e non mediati e l’impazienza della sua gioventù: è uno studente universitario costretto improvvisamente a fare i conti con l’ipotesi di una male incurabile e a dispetto della sua età, si accorge improvvisamente di non essere immortale.

Una “Febbre” lo costringe a ridefinire i confini del suo mondo, a ripercorrere la sua storia, che riaffiora a frammenti, tra i ricordi, belli e brutti dell’infanzia, insieme ai divertimenti e gli impegni normali della vita di uno studente.

«Sono cresciuto a Rozzano… un paese piccolo ma neanche poi tanto, all’estrema periferia sud di Milano, costruito in mezzo alla campagna che costeggia il Naviglio, in direzione Pavia. Buccinasco, Corsico, Assago, Rozzano: posti da cui vengono un sacco di rapper, posti da cronaca nera. Le sparatorie, la rissa col morto, le baby gang, le infiltrazioni mafiose.

Poco meno di 43.000 abitanti a Rozzano, stretti a ridosso della tangenziale Ovest. Il Bronx del Nord: il paese dei tossici, degli operai, degli spacciatori. I tamarri, i delinquenti, la gente seguita dagli assistenti sociali…

Rozzano, Rozzangeles, non so se ce l’avete presente: si riconosce anche da lontano. Nel 1990 le hanno piazzato in mezzo, tipo segnaposto del Monopoli, la gigantesca torre della Telecom. Una costruzione altissima, 187 metri, che svetta isolata più alta di tutto il resto e che di notte sparisce: di lei restano soltanto le luci – alcune fisse, altre intermittenti – e sembra una specie di ufo che si vede a decine di chilometri di distanza. La torre di Rozzano, il posto da cui vengo io. Guarda, la torre: siamo quasi arrivati.

Rozzano è Milano, ma non è Milano. È tutta fatta di grandi palazzoni di case popolari dai colori spenti. Tanti, tantissimi, uno dopo l’altro. Ocra, grigio, verde, giallo pallido, i colori delle case in cui sono cresciuto. Appartamenti prodotti in serie – due, tre o quattro locali – disposti in colonne, una di fianco all’altra, a formare i condomini compatti dell’ALER, Azienda Lombarda Edilizia Residenziale. Otto piani, oppure tre o quattro per le palazzine più basse. Case alveare, un appartamento schiacciato sull’altro. Una famiglia addosso all’altra, a formare gli organismi marchiati dalla via e dal numero civico».

Un paesaggio urbano che rimanda alle tante periferie del mondo, uno spazio anonimo, un luogo non-luogo in cui si intrecciano le vicende di folle non meno anonime di individui, un moderna banlieue italica identica o quasi a tante altre, in cui non a caso risuonano spesso le rime rabbiose del rap, specchio e sintesi delle nuove culture metropolitane.

La “Febbre” muta la prospettiva, e le prospettive, insinua il dubbio, costringe a un precoce bilancio, a sottoporsi ai rituali e al sapere della medicina: «Velocemente, senza rivolgermi la parola, l’infermiere mi lega il laccio emostatico. Distolgo lo sguardo per non collegare la sensazione dell’ago che buca la pelle ed entra nel braccio all’immagine della mia carne trafitta e del sangue che viene portato via dal mio corpo.

Non ho paura, solo non voglio associare le due cose. Non voglio guardare mentre succede.

L’infermiere, sempre senza dire niente, sfila l’ago dal braccio. Accettalo: non hai diritto a nient’altro che a questa ripetizione meccanica. Il modo in cui si fanno le cose, il protocollo: abbiamo finito, arrivederci, a chi tocca?

Le mie manie salutistiche non valgono più. Hanno fallito. Torno a casa e mi metto a letto. Dormo un paio d’ore. Mi sveglio, misuro la febbre. Niente di nuovo. Il mercurio conferma. Sta succedendo davvero». E’ la fine, o meglio l’inizio di tutto.

In un’intervista, Jonathan Bazzi rivela a Andrea Zandomeneghi: «“Febbre” è un romanzo che usa materiale autobiografico. Ci tengo a dire che è un romanzo perché scrivendolo, l’ho progettato e costruito più per le sue immagini, la sua voce e la sua struttura che per le informazioni che trasmette. E infatti alcune cose sono alterate rispetto alla mia biografia. Non le grosse questioni, ma come si sa la vita è molto meno abile a intrattenere rispetto alla sua messa in scena: è piena di ripetizioni, buchi, incoerenze. In più quando si discute della differenza tra autobiografia e romanzo, mi viene sempre da chiedere: la tipica domanda “ma è tutto vero?” si riferisce alla verità del mondo o dell’autore? Con essa si pretende di sapere se il libro contiene la trascrizione di dati reali o di dati mentali reali? In generale io ricerco sempre l’affastellamento, affianco a una singola versione di come sono andate le cose una domanda, o un’immagine, che metta in discussione quella prima versione, allargando lo spettro delle interpretazioni possibili. E diciamo che sono partito avvantaggiato: avevo coi fatti della mia vita già un rapporto da osservatore. Mi sono capitati ma non sentivo un’appartenenza certa, indissolubile. Credo questo valga in generale: penso che, per scrivere di sé in maniera decente, occorra aver vissuto un passo indietro, già in qualche modo da narratore».

INGRESSO GRATUITO

Legger_ezza” è un progetto di promozione della lettura – attraverso “azioni” mirate e intersezioni tra le arti – a cura del CeDAC / Circuito Multidisciplinare dello Spettacolo in Sardegna con il patrocinio e il sostegno del MiBAC e della Regione Sardegna e il contributo della Fondazione di Sardegna – in collaborazione con ARC, Teatro del Segno, Il Crogiuolo, Casa dello Spettatore, USN Expo 2019 e Sardinia Queer Short Film Festival 2019.

About Giulia Mannu

Nasce a Nuoro nel 1997. Dopo aver conseguito la maturità scientifica nel 2016, comincia a studiare presso la facoltà di Scienze Economiche Giuridiche e Politiche di Cagliari, intraprendendo l'indirizzo di Scienze Politiche.

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Un commento

  1. “Febbre è un romanzo coinvolgente, realistico e amaro ma anche lirico”: non sono d’accordo, “Febbre” è una cronaca, il cui unico merito, se così vogliamo dire, è dato dal contenuto stesso della cronaca. Non ci sono elementi che dimostrino conoscenza dell’arte narrativa: forse l’autore avrà voluto costruirlo “più per le sue immagini, la sua voce e la sua struttura che per le informazioni che trasmette”, ma il risultato finale è esattamente l’opposto di quello sperato. Non ci siamo.