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Nuove regole sulla privacy: l’appello di Zuckerberg ai governi

Mark Zuckerberg chiede da mesi nuove norme sulla privacy degli utenti e un ruolo più attivo di governi e regolatori

Mark Zuckerberg come Cesare: se non puoi batterli, unisciti a loro. In guerra o in Rete, il principio è lo stesso. Mark Zuckerberg chiede da mesi nuove norme sulla privacy degli utenti e “un ruolo più attivo di governi e regolatori”. L’effetto Cambridge Analytica, più che sul bilancio, si vede da qui: Facebook è passato dal “possiamo cavarcela da soli” al “dobbiamo farlo insieme”. Perché farlo insieme è l’unico modo che c’è per evitare che lo facciano gli altri.

Questione di “portabilità”

L’ultimo passo in questa direzione è un documento intitolato Charting a Way Forward on Privacy and Data Portability. Si parla di “portabilità” dei dati, cioè del diritto degli utenti a gestire le proprie informazioni, trasferendole in modo libero da una piattaforma all’altra. “In Facebook – scrive Erin Egan, vicepresidente e capo della privacy – crediamo che avere una Rete libera e aperta significhi che le persone siano capaci di condividere i loro dati con le app e i servizi che preferiscono. Questo dà loro controllo e possibilità di scelta”.

All’articolo 20, il regolamento europeo sulla privacy afferma che ogni utente debba ricevere “i dati personali forniti” a un servizio per trasferirli “senza impedimenti” altrove. “Anche se alcune norme, come il Gdpr, già garantiscono il diritto alla portabilità – scrive Facebook – crediamo che le compagnie e le persone beneficerebbero di nuove linee guida”.

Il documento passa poi ad alcune domande, perché non è ancora chiaro cosa sia esattamente la portabilità, quali dati (e di chi) coinvolgerebbe. Di chi è la responsabilità delle informazioni trasferite e di quelle che restano”. Menlo Park si augura che i quesiti “aiutino il dibattito globale su cosa significhi costruire una portabilità sicura”.

Parola d’ordine: dialogo

I temi indicati nel documento sono più che legittimi, ma a colpire è soprattutto l’approccio, che si riassume in una parola: dialogo (conversation). C’è infatti un dettaglio curioso nel white paper di Facebook, che racconta bene la prospettiva di Menlo Park. In 21 pagine, la parola “conversation” compare otto volte, “regulation” (“regolamentazione”) solo quattro. E così anche nel post di presentazione: cinque contro una.

È poco più di una curiosità, certo. Ma il lessico rivela. “Speriamo che questo white paper – si legge – darà inizio a una serie di discussioni con esperti di privacy, regolatori e altre compagnie del pianeta sullo sviluppo della portabilità, per massimizzare i benefici e minimizzare i rischi”. Rischi e benefici, intende Facebook, per gli utenti. Ma la stessa identica frase vale anche per sé. Promuovere e discutere le regole vuol dire gestire un cambiamento che – se imposto dall’alto – potrebbero diventare molto più intricato.

Obiettivo: governare il cambiamento

La necessità di nuove regole è stata ribadita più volte, e con maggior forza da marzo, quando Zuckerberg – che di solito lascia i grandi annunci alla sua bacheca – ha firmato un articolo sul Washington Post. Si intitola The Internet needs new rules. Let’s start in these four areas (Internet ha bisogno di nuove regole. Iniziamo da queste quattro aree). Il ceo di Facebook invoca un ruolo “più attivo” dei governi, ma non è certo una ritirata. Come nel documento sulla portabilità, è Zuckerberg che indica i punti su cui i regolatori dovrebbero concentrarsi: contenuti rischiosi, integrità delle elezioni, privacy e – appunto – portabilità dei dati.

In quell’articolo, il ceo si dice “responsabile” di quanto pubblicato dagli utenti e “d’accordo” con chi dice che la piattaforma abbia troppo potere sulla libertà di parola. Rimuovere tutti i contenuti a rischio “è impossibile”, ma aiuterebbe il contributo dei governi e “un approccio standardizzato” comune alle società tecnologiche.

Quanto alle elezioni, Zuckerberg ricorda gli sforzi fatti dopo le influenze russe sulle presidenziali 2016 e raccomanda “una aggiornamento della legislazione”. Alla voce privacy, propone (rivisto e migliorato) un modello Gdpr da estendere anche oltre l’Unione europea. Infine la portabilità, che offrirebbe “possibilità di scelta” agli utenti e agli sviluppatori. E quindi (anche se questo Zuckerberg non lo dice) potrebbe mettere al riparo Menlo Park da azioni antitrust.

Le mosse delle grandi compagnie

L’obiettivo è costruire regole comuni, con una geografia quanto più estesa possibile, che implichino trasformazioni (anche importanti) senza però erodere le fondamenta. Già nel 2018, Facebook – con Google, Microsoft e Twitter – è entrato a far parte del Data Transfer Project, nato per “trovare una soluzione comune per trasferire le informazioni delle persone in qualsiasi momento vogliano”.

Menlo Park è infatti la società più in vista, ma non è certo l’unica a dover gestire problemi come privacy, contenuti nocivi e abuso di posizione dominante. Google, dopo essere stata multata dall’Unione europea, ha patteggiato un’ammenda da 170 milioni di dollari con la Federal trade commission perché Youtube ha raccolto dati sui bambini senza il consenso dei genitori. Meglio pagare che farsi spulciare in un processo. Anche perché la parola “privacy” è diventato un mantra in ogni presentazione di Google.

A maggio, il ceo Sundar Pichai ha scritto sul New York Times che “non può essere un bene di lusso”. Nel frattempo, Big G ha lanciato una serie di strumenti per la gestione dei dati e abortito (per ora) Dragonfly, il motore di ricerca cinese a misura di regime. Un anno fa, il ceo di Twitter Jack Dorsey aveva messo a fuoco un punto: occorreva rivedere “il sistema di incentivi” tipici di molti social, perché non sono neutri ma “esprimono un punto di vista su ciò che vogliamo che le persone facciano”. Tradotto: il conteggio dei follower in tempo reale e il numero dei like in bella evidenza inquinano la conversazione. E così Twitter ha varato una nuova grafica che dà meno risalto ai numeri. Instagram, in scia, ha cancellato il conteggio dei “Mi piace” e Facebook sta valutando se fare lo stesso.

Dall’opposizione alla negoziazione

Non è una questione di beneficenza: gli aggiornamenti sono segnali di collaborazione in una trattativa costante e servono alle piattaforme per sopravvivere. Dopo un’audizione al Congresso, Dorsey aveva scritto un post molto chiaro: “Se non troviamo soluzioni, perderemo il nostro business”. O cambiamo o siamo condannati a scomparire. Con le dovute proporzioni, vale anche per Facebook. Gli sforzi delle piattaforme e la volontà di negoziare le regole sono mosse della stessa partita.

Non è certo un caso che l’articolo di Zuckerberg sul Washington Post sia arrivato meno di un mese prima della trimestrale in cui Facebook ha svelato di aver accantonato 3 miliardi di dollari (poi diventati 5) in vista di una multa della Federal trade commission per il caso Cambridge Analytica.

È stato il momento (simbolico) in cui Facebook è passato ufficialmente dall’opposizione alla negoziazione delle regole: “Comprendo che qualsiasi regolamentazione potrebbe danneggiare la nostra attività – scriveva Zuckerberg in un post del 24 aprile – ma penso sia necessaria”.

Il ceo sottolineava che “risolvere correttamente questi problemi è più importante dei nostri interessi”. In realtà, è (anche) nei loro interessi, come conferma poche righe dopo: “Nel lungo termine, credo che possa avere un impatto positivo molto più grande per la nostra comunità e la nostra attività rispetto a qualsiasi colpo a breve termine che stiamo per subire”, come la multa della Ftc che di lì a poco sarebbe diventata ufficiale. Molte parole per dire quello che Dorsey aveva sintetizzato in una sola frase qualche mese prima: o si cambia o si perde parecchio, forse tutto.  

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