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Il verso giusto, mostra antologica di Antonio Secci 

Inaugura il 13 giugno 2018 presso Spazio E_EMME, in via Mameli 187 a Cagliari, dalle ore 18,30 la mostra antologica IL VERSO GIUSTO di Antonio Secci a cura di Anna Oggiano.

In esposizione una scelta di opere dagli anni 70 ad oggi. La mostra sarà visitabile dal 13 al 29 giugno, con i seguenti orari: dal mercoledì al venerdì, dalle 18,30 alle 21,00. L’attività produttiva di Antonio Secci, tra i più eclettici artisti, e a maggior ragione quella di artisti che dedicano l’intera vita alla creazione di una stessa opera, o alle repliche più o meno variate di questa, mostra una coazione a ripetere intrinseca all’aspetto più intimo del loro lavoro. Che si tratti dell’arco di un’intera vita, o di un più o meno lungo periodo, artisti provenienti da esperienze molto diverse mostrano una analoga disponibilità a farsi catturare dall’ipnotico ripetersi di uno stesso segno, di uno stesso gesto, di una stessa immagine. Questa sorta di mania merita forse più attenzione di quanta comunemente le si accorda, non foss’altro che per il fatto di presentarsi come diametralmente opposta alla necessità, dagli stessi artisti sentita per statuto, di un rinnovamento continuo dei linguaggi di volta in volta utilizzati.

Che una sorprendente fedeltà a una stessa cifra abbia caratterizzato il lavoro di Antonio Secci nel corso della propria carriera sembrano mostrare in modo inequivocabile le opere qui esposte, le prime delle quali risalgono agli anni Settanta, le ultime ai giorni nostri. Va da sé: entro i limiti che l’artista stesso ha imposto al proprio campo da gioco, le novità di anno in anno in verità si sprecano. Molti sentieri si sono aperti, nel corso del tempo, alcuni dei quali per richiudersi dopo pochi passi, altri per condurre decisamente lontano dal punto dal quale il pittore era partito. Le varianti, i progressi continui, tuttavia, è altrettanto evidente, si giocano entro regole autoimposte assai stringenti, e per chi guarda, in definitiva, più che il continuo rinnovarsi dello specifico linguaggio elaborato, salta agli occhi la sorprendente continuità del lavoro compiuto dall’artista dorgalese.

Messe da parte le vili ragioni del denaro, per le quali, guadagnata una certa rinomanza a un marchio riconoscibile, è bene ripeterlo per metterlo all’incasso – vili ragioni che nel caso di Secci non sembrano essere state mai tenute in considerazione – sono senz’altro da indagare gli aspetti che in tale sorprendente continuità toccano le ragioni intrinseche al suo lavoro. Ragioni che impongono all’artista di battere una stessa strada sino al suo termine, ripercorrendola ad ogni opera, e che pretendono esaurire il proprio argomento riducendolo ai minimi termini, ripetendo tale riduzione ostinatamente, per aggiungere ogni volta un ulteriore passo a quelli già compiuti. D’altra parte, l’idea di un processo creativo che si ripete con piccole varianti per esaurire il campo delle ipotesi e arrivare all’oggettività di una risposta – processo che avvicinerebbe il lavoro dell’artista a quello dello scienziato (e alla tradizione pittorica che in tale vicinanza si è voluta riconoscere) – non sembra rispondere alla domanda circa la mania di Secci. Al contrario, è forte l’impressione che l’interpretare come procedura sperimentale la pittura della quale vediamo esposti qui alcuni esempi eminenti, sia fuorviante e nasconda piuttosto che mostrare ciò a proposito di cui ci si interroga. La multidirezionalità del cammino del pittore, di contro al binario imposto dal metodo scientifico, l’impossibilità di esaurire il campo delle eventualità da parte del primo, di contro alla necessità di farlo da parte del secondo, paiono in fondo ventilare una spiegazione della mania che poi, di fatto, non si dà.

Così, se la scelta delle opere esposte contribuisce in modo opportuno e puntuale alla possibile mappatura delle strade percorse negli ultimi quarant’anni da Antonio Secci, passando in rassegna i diversi materiali utilizzati nel corso del tempo, la varietà delle tecniche, le differenti prospettive offerte dal colore e, soprattutto, mostrando il confronto serrato, mai eluso, con le questioni rimaste aperte dello spazio pittorico – se la piccola mostra antologica appena inaugurata offre elementi importanti per un riordino a posteriori della lunga stagione produttiva in questione, ripropone pure, a ben guardare, lo sconcerto di una fedeltà al proprio mondo, da parte dell’artista, che le ragioni della storia dell’arte non riesce a risolvere. La ragione di fondo di tale fedeltà, e della continuità del lavoro che ne consegue, al contempo sembra stare al fondo della ricerca sul linguaggio pittorico, da parte di Secci, ma, pure, dicendo della ricerca dell’artista sul proprio linguaggio, sembra divenire ostacolo alla sua stessa comprensione, riportando inevitabilmente alla ripetizione di uno stesso segno, di uno stesso gesto, di una stessa immagine. O – forse più opportunamente nel caso di Secci si dovrebbe dire – portando inevitabilmente alla riconferma di uno stesso stile.

Escluse dunque le ragioni dell’indagine circa le possibilità intrinseche al proprio linguaggio pittorico, viene da chiedersi se non sia invece la possibilità di riconoscersi in esso – in esso in quanto cosa propria – a costringere l’artista al ritorno costante su uno stesso terreno. La domanda, lecita in generale quando si parla del lavoro di un pittore, nel caso di Secci, tuttavia, sembra perdere di consistenza, considerati l’alto livello di astrazione e l’approccio progettuale cui il pittore ha tenuto fede nel corso dell’intero arco della propria carriera, lasciando poco spazio alle dinamiche del riconoscimento e quindi a quelle della cosiddetta espressione. Spazio esiguo, certo, non per questo irrilevante. Se è vero che tutti noi arriviamo a definire la nostra identità, attraverso l’esperienza della nostra stessa immagine riconosciuta come tale, l’immagine nella quale gli artisti si specchiano è inevitabilmente quella che in prima persona producono, e ogni aggiustamento di tale immagine, ogni sua variante contemplata, ogni precisazione apportata alle sue linee è inevitabile che diventi un passo compiuto nella definizione di chi la apporta. Da qui, forse, il famoso narcisismo degli artisti, che non è la semplice vanità che comunemente si attribuisce loro, ma questo continuo aggiustare l’immagine nella quale, attraverso la quale, riflettono la propria persona.

La riduzione dell’espressività da una parte – espressività che pure resiste, lasciando l’opportunità di un riconoscimento – e, dall’altra, l’approccio analitico e l’insistenza sul metodo – metodo che pare stare a monte di ogni opera, e che procede secondo un rigore distante da quello della scienza (al quale somiglia solo superficialmente) – piuttosto che mettere capo al lungo e costante lavoro di elaborazione di un proprio linguaggio da parte di Secci, sembrano in verità procedere in senso diametralmente opposto, demolendo semmai la possibilità stessa di una grammatica, riducendo alla propria lettera le forme elaborate, mostrandole per quello che sono, privandole quindi, drasticamente, del proprio senso.

Stupisce la somiglianza della coazione a ripetere propria degli artisti, all’operare degli animali che costruiscono nidi, erigono dighe, scavano tane, tessono ragnatele. Di là dalla gratuità o dall’utilità del gesto, sono la necessità, l’inevitabilità che paiono caratterizzarlo, a farsi comune denominatore tra le specie. Se di linguaggio si tratta – del suo farsi o del suo disfarsi – ad emergere dall’adoprarsi inevitabile degli artisti attorno ai propri segni, sarebbe forse, allora, qualcosa che nel consueto uso del linguaggio stesso si perde: il verso. O, meglio: ad emergere dall’ostinato tornare sui propri segni da parte degli artisti, sarebbe la mancanza avvertita di un verso proprio, (di un verso giusto, verrebbe da dire). Come se da tale mancanza, e solo da tale mancanza, dovesse venire la consapevolezza del linguaggio. Se è vero, come si dice, che la nostra specie si distingue dalle altre non tanto per avere un linguaggio, ma per non avere un proprio verso, un proprio suono che non sia già da sempre (all’atto o in potenza) articolato nella parola, allora nella mania di Secci – e in quella di molti altri artisti come lui profondamente radicati nei propri stessi segni – dovremmo forse leggere ciò che il linguaggio per sua natura non può dire: non la propria origine nel tempo – che non può che essere mitica – ma la propria origine nella coscienza: nello stupore, in definitiva, che un linguaggio per dire si dia.

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